I ROMANI E GLI EBREI
Dopo i Greci, dobbiamo parlare dei Romani. Il granaio dell’Impero: così veniva considerata la Sicilia.
Il rapporto con la Sicilia era di amore ed odio: le espoliazioni di (Gaio Licinio) Verre (propretore di Sicilia dal 73 al 71 a.C.) si contrapponevano all’amore di Cicerone, che ne apprezzava in modo particolare la cucina. Adorava il “polpo rosso” al salnitro cotto sulla piastra infuocata, e, cito da una sua epistola, il “tubus farinarius, dolcissimo edulio ex lacte factus”: il cannolo insomma!
Durante la dominazione romana, iniziarono ad arrivare gli Ebrei senza dar nell’occhio, come loro costume. Diedero vita, nel tempo, al ghetto di Palermo con cinquemila anime prima della definitiva cacciata nel 1492-93, grazie o per colpa dell’Inquisizione.
Così, a Siracusa, l’allora capitale, cresce una colonia ebraica che pratica l’usura fra i propri affari, senza interesse alcuno per la politica e, in quanto al mangiare, usa le fresche derrate siciliane, cucinandole secondo i dettami kasher.
Molte delle loro pietanze, di quel tempo, permangono tra i piatti dell’isola: le “Triglie allo Scoglio di Ortigia”, fritte infarinate e poi in guazzetto con verdure e acciughe sa-late, e diverse “scacce” (sorta di focacce), soprattutto nel Ragusano, fatte con pane azzimo, verdure stufate, cacio, acciughe e peperoncino.
Tornando ai Romani, in tutta Roma le diverse famiglie nobili si contendono i migliori cuochi siciliani. Tanto Petronio, quanto Marziale (l’epigrammista), tra l’altro figlio di un cuoco spagnolo, celebrano le “siculae dapes et siculus coquus”, perché i grandi festini della Magna Grecia si sono rifugiati nei santuari epicurei della Sicilia, soprattutto quando il rinunciatario cristianesimo incomincia a prendere piede. E allora i grandi nobili ricchi romani si fanno costruire ville, come quella del Casale, vicino a Piazza Armerina.
Il cuoco più famoso di allora fu certamente Apollodoro, fido cuoco siciliano di Cleopatra, nativo di Hibla Gaelatis, nei pressi di Paternò (Catania).
Con le sue ricette, raccontate da Plutarco e dove per la prima volta si parla di cucina afrodisiaca, fu, quasi certamente, fonte di ispirazione per il Satyricon di Petronio.
Del tempo romano, restano in Sicilia certi brodetti di murena, il gusto delle ostriche, le seppie croccanti e sfumate in forno, gli asparagi di montagna (asparagus tenuifolius), salsicce e sanguinacci, e le insalate di cuori di cipolla al forno con olio, aceto e origano. Nell’Anfiteatro romano di Catania, secondo solo al Colosseo, si celebravano spettacoli che duravano tutto il giorno, e, durante le pause, gli spettatori andavano a rifocillarsi, nelle “tabernae” interne, con pesci fritti, frittelle di pasta lievitata (che non sono ancora le “sfince” del periodo arabo) e ceci. Il concetto di rosticceria ci viene da quelle usanze.
Nell’ultimo ventennio del IV secolo, un’orda di Franchi assalta e saccheggia Siracusa. Dopo otto secoli, finisce il periodo di dominazione romana iniziata nel 264 a.C. e conclusa nel 535 d.C.
Ma ora permettetemi una piccola digressione.
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